Il titolo di questo post richiama un auspicio che in Italia sembra irrealizzabile.
Mentre in Italia ci si prepara ad attuare una riforma ricalcata su modelli anglosassoni, con il beneplacito entusiasta della dirigenza nazionale del sindacato maggioritario della Medicina Generale Italiana, lì dove questi modelli sono stati attuati da tempo vengono stilati bilanci non esattamente soddisfacenti sul funzionamento di questi modelli.
Questo vale sia per l'esperienza del fascicolo sanitario elettronico che per le cosiddette aggregazioni funzionali.
Vi propongo una lettura interessante riguardo quest'ultimo aspetto:
Pubblicata su Medici Oggi
L'aggregazione forzata in Gran Bretagna non paga
La
situazione della medicina generale in Gran Bretagna contiene elementi
di parallelismo con quanto avviene in Italia circa intese o spinte che
istituiscano aggregazioni funzionali territoriali e unità complesse di
cure primarie. Questo perchè il Governo di Gordon Brown aveva affidato
al sottosegretario Lord Dazi di elaborare un piano per ridefinire la
medicina di famiglia in macroaggregazioni, definito sui giornali “
Policlinics “. Due passaggi del dibattito in corso Oltremanica appaiono
particolarmente duri e significativi:
-Il rapporto del servizio sanitario pubblico e “universale” con una
professione smembrata in sottogruppi (Primary Care Trusts-PCT,
assimilabili alle nostre aggregazioni o équipes, ma con personalità
giuridica) che si presentino come interlocutori più ricorrenti, a
livello locale, del sindacato;
-La presenza di delegati/referenti di tali sottogruppi che vestono due
abiti in conflitto di interesse tra loro: medici convenzionati e
portavoce delle richieste del distretto.
In Gran Bretagna, dove la
marcia verso l’aziendalizzazione della medicina generale è partita
prima, oggi c’è anche preoccupazione per lo sviluppo di centri di salute
– spesso edificati con operazioni congiunte tra capitali pubblici e
privati – dove operano i medici di famiglia convenzionati con il
National Health Service. Queste “case della salute”, oltre a sorgere in
aree dove magari non ce n’era bisogno, richiedono investimenti extra,
sottratti a una miglior dotazione del medico inglese. L’allarme viene da
un rapporto della Commissione Sanità della Camera dei Comuni,
appoggiato da analoga analisi critica del Royal College of General
Practitioners - la società scientifica dei medici di medicina generale
britannici-, che si sofferma sulle carenze delle ultime riforme delle
cure primarie.
Due i nodi-chiave:
1)I Primary care trusts (PCT), ovvero le
aggregazioni territoriali con personalità giuridica previste dalle
ultime convenzioni, non funzionano quasi mai bene. Ancora adesso, dopo
anni di prova, non sono in grado di fare fronte ai compiti richiesti
dalla riforma delle cure primarie; è spesso sentita come scadente dai
medici la qualità del management, in genere gestito da figure
amministrative (ma non è la laurea in medicina il punto). In secondo
luogo, non sono ancora stati bene compresi i costi che a regime
comporteranno le riforme sul territorio, che si susseguono da alcuni
anni. Né il Ministero della Salute britannico né le altre autorità
sanitarie londinesi hanno azzardato cifre ufficiali sui risparmi attesi.
Infine, nessuno – rileva la commissione parlamentare guidata da Steve
Field – sembra accorgersi che dove il PCT - votato a migliorare la
qualità dell’assistenza - tarda a realizzarsi, si rischia di sviluppare
una sistema sanitario differente (non necessariamente a velocità
“ridotta” ma pur sempre vettore di disparità).
2) Gli Health Centres, ovvero le case della salute britanniche, guidate
dai medici di famiglia-general practitioner, non convincono. Gli esperti
della commissione, così come anche la British Medical Association ( il
fortissimo e unitario sindacato dei medici ) non sono convinti che
dovrebbe esservene uno per ogni aggregazione territoriale/PCT. E
raccomandano che l’istituzione di queste “case” sia discussa e decisa
volta per volta, a livello locale.
A questo punto molti esponenti della medicina generale britannica
iniziano a tirare le somme dopo l’illusione del contratto del 2004, con
il quale il governo Blair destinò un investimento mai visto prima per
innalzare la qualità organizzativa e clinica del servizio. Le successive
leggi, quasi mai precedute da progetti-pilota né “sposate” dalla
British Medical Association, in realtà sembrano premiare solo le aree
dove ci sono pochi medici o ci sono davvero molti malati cronici. In
quei contesti, aggregazione territoriale potrebbe voler dire più
qualità, anche nella retribuzione del medico. Nelle altre aree si
profilano dubbi forti e crescenti: aggregare generalisti, farmacisti ed
infermieri non vuol dire farli lavorare meglio e nemmeno farli iniziare a
lavorare “insieme”. Può invece voler dire speculare per costruire case
della salute che non offrono i servizi richiesti, in particolare nelle
contee dove non si tenessero in debito conto le richieste delle
rappresentanze della popolazione.
E’ difficile prevedere se le regioni italiane, vere interlocutrici della
classe medica, nei prossimi mesi sapranno trarre insegnamenti concreti
da questo dibattito e da queste reazioni, solo in apparenza lontane, ma
in realtà molto parallele e come quasi sempre in anticipo in Gtan
Bretagna e possibile esempio di errori o problematuche da non seguire e
già bocciate o modificate là dove erano state proposte o imposte e poi
verificate o bloccate.
Francesco Carelli
Membro Royal College of GP , membro del General Medical Council
e International Ambassor of Association of Healh Care Professionals
Errare humanum est...
...perseverare autem diabolicum