sabato 31 agosto 2013

Avvocati contro medici. Sanità: ammortizzatore professionale

 
Sono laureati da poco, agguerriti, divisi in squadre. Giovani avvocati che si distribuiscono il territorio a caccia di un cliente, in genere il parente più stretto di una vittima di malasanità, in grado di assicurare un buon guadagno. Li trovi nelle corsie degli ospedali, al di fuori delle camere mortuarie, avvertiti magari da un “interno” che ha seguito la triste vicenda dell’ammalato conclusasi con il decesso. Ma basta anche fare una ricerca su Google e come d’incanto si aprono paginate intere di studi pronti a difendere e a tutelare gli interessi – economici, sia chiaro – di coloro che hanno perso un caro dopo una degenza ospedaliera. Poi dopo un iter più o meno lungo tutto si sgonfia: solo un medico su cento subisce una condanna, nove denunce su dieci vengono archiviate.

Eppure le pratiche di malasanità sono in lento ma costante aumento, (del 31,5% dal 2005 al 2010) perché la vita si è allungata e quindi ci si rassegna meno alla morte. Basti pensare, tra l'altro, che il paziente può rivalersi nei confronti del medico in un arco temporale di 10 anni dal momento in cui prende coscienza di un eventuale danno subito da un trattamento medico. E poi, come dicevamo, il resto lo fanno queste batterie di avvocati che utilizzano il comparto come una sorta di ammortizzatore professionale, visto che ormai l’offerta (di prestazioni legali) supera di gran lunga la domanda.

Una materia delicata, dunque, che fa sbottare di rabbia Maurizio Maggiorotti, ginecologo, ma anche presidente di Amami (Associazione medici accusati di malpractice ingiustamente) che dal 2003 chiede di creare l’Osservatorio del Contenzioso dell’Errore Medico “Perché solo partendo da una diagnosi corretta si potrà fare terapia”, afferma il medico. E Maggiorotti rilancia sui numeri degli iscritti all’Ordine degli avvocati: “A Roma abbiamo lo stesso numero di avvocati della Francia, è evidente che dovranno pur lavorare.

E poi nascono come funghi associazioni a tutela dei cittadini che alla fine non fanno altro che insolfarli sulla scia dell’emotività”. E se il paziente perde? Non rischia nulla, se una richiesta appare infondata non ci rimette niente. Invece, sostiene un chirurgo che vuole mantenere l’anonimato perché coinvolto in una vicenda giudiziaria, anche il cittadino che avvia un procedimento deve poi essere penalizzato se si scopre che la denuncia non ha basi scientifiche.

In effetti c’è da dire che il meccanismo è perverso: se il paziente che in ospedale è stato curato e assistito da più medici, come avviene sempre, decide che ha avuto gravi conseguenze, per il cosiddetto “patto in quota lite” non anticipa denaro, ma divide il rimborso con l’avvocato che lo ha seguito. Nella peggiore delle ipotesi il giudice rigetterà la richiesta avanzata dal paziente mentre il professionista accusato – a quel punto ingiustamente -  dovrà pagare il penalista a cui si è affidato. E non è tutto: nel frattempo il medico ha dovuto allertare l’assicurazione col rischio di vedersi disdettare la polizza oppure nella migliore delle ipotesi, vedersi applicare un cospicuo aumento sul già costoso premio.  Insomma, se ci fosse una legge che disciplina l’atto medico, i paletti sarebbero sicuramente più alti. “La comparazione della gestione del contenzioso medico-legale e della disciplina della responsabilità medica – afferma l’avvocato Vania Cirese, specializzata nella difesa di medici - può costituire la valida premessa per tracciare linee guida più moderne e appropriate, prevedendo la responsabilità penale solo al superamento di una certa soglia di gravità della condotta errata”.

L’Italia, giova ricordarlo, è l’unico Paese dove esiste il penale per il medico che sbaglia e ciò ovviamente si trasforma in un’aberrazione per il professionista che lavora sotto una spada di Damocle, tanto da spingerlo ad avviare inutili e costose analisi per evitare contenziosi. Se si è arrivati a questo una delle cause deriva sicuramente dalla lobby degli avvocati che in Parlamento ha fatto approvare leggi a favore della categoria e dei propri assistiti (e questo non vale solo per la medicina). Una prima proposta per uscire da questo circolo vizioso arriva dai chirurghi del Cic (Collegio italiano dei chirurghi), che chiede di partecipare al tavolo tecnico che entro l’agosto 2014 dovrà dare una risposta esaustiva a medici e cittadini sul rischio clinico.

I chirurghi su questo sono chiari: occorre garantire la sicurezza delle cure, ridefinire i diversi profili di responsabilità penale e civile e affrontare la questione delle assicurazioni e dell'obbligo assicurativo sono i tre punti-cardine dell'iniziativa del Cic. In particolare la categoria medica, tra le più esposte alle vertenze, ritiene prioritario prevenire il rischio connesso alle attività medico-sanitarie, investire in una 'cultura della sicurezza', costruire una 'mappatura dei rischi' ma anche contrastare gli ingiusti fenomeni tesi alla frode e alla speculazione.
Silvio Campione


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